MILANO - La voce dall’altra parte del telefono arriva forte come erano forti i suoi tackle in campo. «Ascolta» ripete all’inizio di quasi tutte le risposte. Lilian Thuram non fa sconti ai razzisti come non li faceva agli attaccanti avversari. Ha cambiato lavoro, ma lui per dna è sempre un difensore: prima ha difeso la porta del Monaco, del Parma, della Juventus e infine del Barcellona; adesso difende coloro che vengono discriminati per il colore della pelle, per la loro religione o per le loro preferenze sessuali. Ha scritto anche due libri (“Le mie stelle nere” e “Per l’uguaglianza”, entrambi editi da “Add Editore”) e non intende interrompere la sua battaglia perché ritiene fondamentale dare un contributo per cambiare la società. Anche quella italiana che lui conosce bene avendo frequentato i nostri stadi e le nostre città dal 1996 al 2006.
Thuram, dalla Guadalupa che idea si è fatto della vicenda Koulibaly e del razzismo che non è ancora uscito dagli stadi italiani?
«Quando giocavo in Italia, già succedevano episodi del genere e a distanza di 12 anni putroppo noto che la situazione non è cambiata. Sa cosa vuol dire questo? Che non è stato fatto abbastanza e che la lotta contro il razzismo da voi non è una priorità. Né per la classe politica né per i dirigenti delle società che si sono concentrati su altro e non su questa piaga inaccettabile ».
Come ci si sente a essere vittime di episodi di razzismo per il colore della pelle?
«E’ un qualcosa che è impossibile da scordare, ve lo assicuro. Io non lo dimentico, ma non dovrebbero dimenticarlo neppure quelli che vedono la scena allo stadioo davanti alla tv. E invece ho l’impressione che le persone si agitino quando un fatto del genere succede, ma che poi lo cancellino in fretta, spostando la loro attenzione su altre cose».
Koulibaly, Muntari, Boateng, Eto’o, Zoro, Omolade: la lista dei giocatori vittime del razzismo in Italia si allunga.
«Un caso per me è già troppo, ma se questi episodi aumentano e soprattutto si ripetono a distanza di anni, vuol dire che i dirigenti e i tifosi italiani non li considerano molto gravi. Se pensassero che sono gravissimi, farebbero di tutto affinché non accadessero di nuovo e invece ci sono tante persone che negli stadi se ne fregano dei buu razzisti e di altri cori altrettanto sgradevoli».
San Siro dopo i buu a Koulibaly è stato squalificato per le prossime due gare dell’Inter, ma il ministro dell’Interno Salvini non ritiene giusto chiudere un intero stadio. Lei da che parte sta?
«Sarà perché sono una persona nera o... marrone scuro, se preferite, ma mi sono stancato di questi dibattiti. In presenza di episodi del genere, io chiuderei tutti gli stadi della Serie A per un week end. Non solo quello dell’Inter. Se gli sportivi italiani fossero costretti a stare un sabato e una domenica senza partite sarebbero obbligati a riflettere, a capire quanto sia ingiusto che un persona venga aggredita sul campo per il colore della sua pelle. Se ci fosse un bianco in un campionato con tutte formazioni composte da neri non succederebbe».
Perché ne è convinto?
«Perché i calciatori neri reagirebbero nei confronti dei tifosi, li zittirebbero e si inc… con loro. Lo farebbero non perché sono più bravi o più buoni, ma perché quando sei nero impari in fretta cosa vuol dire essere aggredito o discriminato. E se vedi che un’altra persona è vittima della stessa cosa, ti ribelliti viene automatico di difenderla».
Sta dicendo che non c’è abbastanza solidarietà da parte dei giocatori bianchi nei confronti dei neri?
«Non è una mia idea, ma la realtà. E sapete perché i bianchi non si ribellano? Perché non considerano troppo gravi questi buu. Se non hai mai provato certe cose sulla tua pelle, non puoi capire quanto sia terribile subirle».
In Italia si discute molto sull’opportunità di sospendere un match quando ci sono i buu, ma è successo poche volte.
«Quando si accorgono di episodi razzisti gli arbitri dovrebbero fischiare la fine, ma anche le autorità competenti dovrebbero avere più coraggio. I politici fanno poco? Tu fai le cose quando credi che siano importanti. Se i politici italia ni non si impegnano per estirpare il razzismo, dalla società e dagli stadi, vuol dire che non lo ritengono importante».
Che messaggio vuole inviare a Koulibaly, l’ultimo in ordine di tempo a essere vittima dei razzisti?
«Il messaggio non è per Koulibaly, ma per le persone che leggono questa intervista e per quelli che vanno negli stati a fare buu ai calciatori di colore. Guardatevi in faccia e chiedetevi perché accettate o fate queste cose. Se la situazione non cambia è perché tanti di voi non vogliono che succeda, perché ve ne fregate. Forse pensate di essere meglio dei neri, ma non è così».
Con certi brutti esempi c’è il rischio che cresca una generazione di bambini potenzialmente razzisti?
«La realtà è questa: non solo in Italia, ma anche in altri Paesi europei ci sono tante persone che pensano che i bianchi siano superiori ai neri. Chi urla “buu” è perché si sente superiore e questo è frutto di un’educazione sbagliata. In una società civile, il colore della pelle, la religione e la sessualità non sono importanti. Chi distingue “noi” da “gli altri” e arriva a pensare che “noi siamo meglio degli altri” è un razzista».
In Italia il problema razzismo è più grave che in altre nazioni europee?
«E’ sbagliato fare classifiche perché ogni Paese ha le sue problematiche. Ogni classe dirigente dovrebbe scattare una fotografia della propria nazione e intervenire. A me sembra impossibile che a inizio 2019 così tanta gente pensi che i buu siano una cosa di scarsa importanza, che questa cosa sia accettata in uno stadio di calcio. Dopo quello che è successo a Koulibaly quante persone hanno preso la parola dicendo che bisogna trovare una soluzione, anche a costodi fermare il campionato? Nessuno. Davvero incredibile... Magari adesso tanti si agitano, ma tra 15 giorni penseranno ad altro e si saranno già dimenticati dei buu a Koulibaly e agli altri calciatori neri che lo hanno preceduto».
C’è una formula per debellare la piaga del razzismo dal calcio?
«Se non ci sono pene certe, questo problema non verrà mai risolto. Senza punizioni esemplari non c’è niente da fare».