Se Carlo Ancelotti assolve José Mourinho, allora indosso il cilicio, di breriana memoria, del frate flagellante e lo seguo in processione. Però resto convinto che un professionista debba evitare, nei limiti del possibile, di battibeccare con i tifosi soprattutto dentro o a ridosso dell’incendio di una partita. Anche l’ironia, come altri civili atteggiamenti, non cresce negli stadi italiani. Insomma, giocatore o allenatore, dovrebbe lasciar perdere, e non “perché guadagna tanti soldi e deve sopportare” (sciocchezza), ma perché l’ironia è filtrata dal tifo e perde il suo valore. Ancelotti ha scherzato portandosi la mano all’orecchio come lo Specialone. L’aspetto più divertente ma meno importante del suo intervento. Carlo ha avuto la residenza nei grandi templi del football, Stamford Bridge, Parco dei Principi, Bernabeu, Allianz Arena, e ha potuto rendersi conto della differenza tra l’Italia e l’Europa. Non abbiamo l’esclusiva di violenti e incivili, però l’assenza di sportività, la mancanza di rispetto, il tasso di litigiosità da noi è decisamente più alto.
“Non è un problema solo di Torino, ma di ogni stadio, anche di Napoli. Basta litigare. Viviamo lo sport in maniera più semplice e responsabile”. Bello, ma il guaio è che abbiamo superato il limite e neanche ce ne siamo accorti. Ieri un amico ha ripreso un tweet contro di me. Gli ho scritto: se ti ho irritato potevi chiamarmi. Mi ha risposto, testuale: “Ma su twitter vale tutto, come al bar”.
Il tifo vale più di un rapporto personale. La rete è come lo stadio. Nascosti nella massa reale o virtuale, pensiamo di poter insultare chiunque, pronunciare qualsiasi nefandezza, ironizzare sui drammi e sui morti, infangare gli avversari, invocare la furia degli elementi sui nemici, coprire di “buu” i giocatori di colore. Allo stadio vale tutto. Ormai siamo mitridatizzati. Ai tre gentiluomini che hanno “invitato” una ragazza che conosco a togliersi la sciarpa della Roma nella tribuna dello stadio di Firenze non sembrerà di aver fatto nulla di grave. L’avranno pure dimenticato. Ci siamo abituati a tutto, anche ai “morti di calcio”: dal 1963 sono stati 22 per cause dirette o indirette di incidenti dentro e fuori gli stadi. Un numero enorme, l’ultimo quattro anni fa. Accadrà di nuovo e allora piangeremo, accenderemo lumini e urleremo al cambiamento. E se cominciassimo a cambiare qui, ora, magari con piccoli gesti? Come? Ah. Tempo scaduto, c’è il campionato.