Il calcio è un gioco semplice: ventidue uomini rincorrono un pallone per novanta minuti, e alla fine la Germania esce dal Mondiale, la seguono Messi e Ronaldo, e in corsa resta il Giappone qualificatosi col giochino dei cartellini, naturalmente gialli. Il popolarissimo aforisma di Lineker è uno dei tanti caduti eccellenti della campagna di Russia: si è portato dietro (e addosso) un mondo di certezze, scontatezze e pronostici sballati. Uno shock dietro l’altro, l’imponderabile ha avuto la meglio su teorie che sembravano inattaccabili, se solo pensate che Svezia e Belgio stanno facendo cose splendide senza Ibra, né Nainggolan, e che - appunto - il meglio del meglio, i protagonisti dell’ultimo decennio, dieci palloni d’oro in due, Leo e CR7, hanno conosciuto la più grossa umiliazione della carriera.
Mi soffermo sull’argentino. Non mi piacciono i finali tristi, in particolare quando lo sconfitto è un genio, detesto la ridiscussione della sua unicità: ho sempre considerato Messi un regalo del dio pallone e vederlo ridotto a calciatore poco più che ordinario nel Mondiale che avrebbe dovuto celebrarne la grandezza universale, fa male a me e a tutti quelli che lo amano. In Russia non è mai stato Messi, quello che conosciamo, l’autore dei 383 gol in 416 partite della Liga: una rete, un assist, tre o quattro preziosità delle sue e tanti vuoti, non ricordo altro. L’album fotografico contiene e conterrà soltanto le sue espressioni meno felici, il pianto rivelato dalla madre, un apparente desiderio di auto-annientamento, lo smarrimento dopo il vantaggio dei francesi, e insomma cinquanta sfumature di tenerezza e tutta una serie di palle perse, di dribbling mancati, di passeggiate in mezzo al campo senza un dove, né un perché.
La caduta di Messi è uno dei momenti più dolorosi per chi al calcio chiede emozioni e giocate inarrivabili. E’ vero che in nazionale Leo non ha vinto nulla - solo secondi posti più un oro olimpico e un titolo under 20 - ma non penso che possa bastare l’elenco delle delusioni con la Selecciòn per trarre conclusioni definitive. Dunque, quello che doveva essere non è stato: i campioni del mondo, quelli d’Europa e il genio si sono arresi in quindici giorni, e a questo punto sospetto che le sorprese non si siano ancora esaurite. Il calcio ha oggi altri protagonisti, alcuni famosissimi come Neymar, Kane, Diego Costa, Iniesta, Ramos, gli strepitosi Cavani e Suarez di ieri sera, e Griezmann, ma anche attori assai prossimi alla consacrazione planetaria. In particolare uno. Tre anni fa, se non ricordo male era fine aprile, sul frecciarossa Napoli-Roma delle 9 Gianni Di Marzio mi raggiunse nel salottino con il suo carico di quotidiani e l’entusiasmo del settantacinquenne - oggi sono settantotto ma lui non è invecchiato di una virgola -; del settantacinquenne, dicevo, che non ha intenzione di arrendersi poiché è sostenuto da un’energia invidiabile e da un amore definitivo per il calcio. «Caro Ivan» mi disse «ho visto il campione del futuro, un fenomeno, destro e sinistro, potenza, rapido nel breve, un allungo impressionante e poi ha lo scatto nello scatto: se parte non lo prendi più; è a Monaco. Segnati questo nome: Mbappé». Una quarantina di anni prima sempre lui, sempre Gianni, aveva individuato e inutilmente segnalato il talento infinito di un sedicenne argentino che giocava a pallone su Marte e che nell’84, grazie a lui, sarebbe atterrato sul pianeta Napoli per rubarne il cuore forever and ever: credo che Gianni conservi nel portafoglio, accanto all’elenco dei campionati vinti da allenatore, la foto del primissimo incontro con Diego, a Lanùs.