Due o tre volte, ma forse quattro, devo aver maledetto il regista: "Ma che fai? Stai fisso sull’invasato, su quel magnifico folle in calore! Che ci frega della partita!... Stai sulla maschera, sulle sue smorfie cinema muto. Stai anche su quel tipo, l’amico grassone che si aggrappa alla grande pancia di Diego per impedirgli di prendere il volo…". Perché sì, Diego Armando sembrava sul punto di spiccare il volo, lui e il suo cabezòn, rapinato dal demone che lo chiamava. Dal calore al malore. E’ il passo greve della vita. In tarda serata s’era sparsa la voce che era morto. La figlia ha dovuto smentire. Diego non muore, tutt’al più manca, sviene, collassa. Sarebbe stata una morte esemplare dopo quei novanta minuti giocati e schiamazzati in tribuna da genio disforico, che è molto più dell’euforico, l’oltre, quando l’uomo è totalmente fuori controllo, senza più alcuna mediazione tra sé e le proprie emozioni, il cervello bruciato da un’attitudine alla vita che è spreco, ma soprattutto generosità e poi ancora necessità, quando nasci Maradona e non sarai mai uno qualunque, con o senza palla al piede. Straripante perché un qualche dio o demone lo pretende e lo sapeva bene quell’altro tizzone di Kusturica che lo ha tampinato per mesi con la telecamera morbosa addosso, e lo ha ripreso calciare, ballare, cantare, strafare e straparlare, sempre medesimo a se stesso, fosse Fidel Castro o l’ultimo barbone della terra.
Mi sono detto, mentre rimuginavo il magnifico ossesso: “Domattina chiamo il direttore e gli propongo qualcosa su Maradona rockstar, l’eccesso da raccontare e non da giudicare che racconta la profondità e forse l’enigma della vita, la dismisura non solo dell’addome”. Squilla il telefono la mattina, che sono ancora trasognato. E’ il direttore. Che mi anticipa o sa leggere le menti altrui. “Ti andrebbe di farmi un pezzo su Maradona rockstar? Maradona così com’è voglio dire, dove lo porta il suo maledetto genio, senza che debba porsi l’oscena questione di essere un buon esempio per i contemporanei. Maradona come Elvis Presley”.
Elvis! Mi suona bene. Elvis, lui morì davvero, dopo una botta di calore. Non stava in tribuna, ma nella vasca da bagno di casa sua o, forse, steso a terra, in una pozza di vomito. E non giocava l’Argentina, aveva smesso di giocare qualunque cosa. Solo fantasmi ballerini che Elvis combatteva ingozzandosi di tutto, di enormi sandwich di marmellata e burro di arachidi, più letali di ogni barbiturico o psicofarmaco. Diego come Elvis. Non puoi essere Diego o Elvis, un’enormità, esserlo davvero, senza pagare un prezzo enorme. Sapete cosa? Essere Diego ed Elvis fino in fondo è segno di animo nobile. La più eccelsa forma di rispetto verso la folla dei tuoi fans, appiattiti e vinti nella posa dell’idolatria, da Baires a Napoli, perché un giorno hanno visto Maradona e innamorati sono. A un millimetro dal più grande funerale di massa, divorata dall’angoscia, l’Argentina si salva, va oltre, trascinata sì da quel magnifico destro al volo di Rojo, l’inatteso, purché sia chiaro che a evocarlo erano stati quei due, Messi in campo a fare Messi, Maradona in tribuna a rischiare l’infarto per ricordargli che chi ha il dono del genio non si nasconde dietro la lavagna. I due migliori di ogni tempo, mai così “insieme”, schierati nello stesso sabba al confine tra inferno e paradiso, fianco a fianco, anche se con posture e turbe opposte. Attratti da gorghi diversi.
El Pibe scostumato, che prega e si arrampica sui muri come le tarantolate di Galatina, la Pulce allucinata e tormentata, che fissa il vuoto, il magnete del destino uguale disfatta. La gigantesca depressione di dover essere Diego e Leo e due modi opposti di provare a scamparla. L’impensabile genio di Diego e Leo, due sgorbi divini, gemellati contro il pensabilissimo genio di Cristiano Ronaldo. Io dico che Maradona ha resuscitato Messi, nei giorni che hanno preceduto la calamità innaturale travestita da Nigeria. Rifiutandosi di unirsi al coro degli sprezzatori. Sublime anche in questo Maradona. E sapete perché? Da genio, lui sa riconoscere il genio. Diego è pazzo, ma leale. Diego sa e rispetta il dono innato di Leo. In cuor suo sa anche, ha il dubbio che sia, per quanto traviato, persino più grande del suo. Ma non si consente di esserne meschinamente geloso. Solo di rispettarlo e proteggerlo. Le parole di Diego, sono sicuro, hanno salvato Leo. Sono state quel piccolo, grande massaggio cardiaco che hanno rimesso in piedi la pulce calpestata e sfregiata, tornare a credere che il mondo non è solo un lager sadico dove sopravvivere tra conati di nausea, ma anche un teatro dove generare bellezza. Il loro teatro. Diego e Leo. La stessa maglia. L’Argentina sa per chi spendere, quando sarà, la sua ultima lacrima.