Ariel Ortega, un “Diez” troppo fragile,

Idolo in Argentina, "El Burrito" deluse in Italia con le maglie di Sampdoria e Parma. Problemi personali e incomprensioni lo hanno tormentato per tutta la carriera
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Un manifesto in un gol. Un rimpianto come una pennellata d'artista che lascia paesaggi di malinconia per un tempo sbandato. Ariel Ortega detto “Burrito”, “l'asinello”, ha disegnato sentieri interrotti di possibilità anche in Italia. È arrivato alla Sampdoria in un anno sbagliato, nell'estate 1998, l'inizio della stagione che porterà alla retrocessione. Segna otto gol, l'ultimo è un regalo del destino, per chi l'ha visto e per chi non c'era. Tocco d'esterno di Montella dal limite, il Burrito entra in area e, novello Giotto, scandisce un arcobaleno alle spalle di Pagliuca. La Samp vince 4-0 contro l’Inter, è un'altra delle grandi illusioni di quel campionato.

IN ARGENTINA - Ortega, quarto acquisto più costoso nella storia del club, circondato da aspettative per quella capacità di rendere semplice l'impensabile, laterale rispetto al suo tempo e a ogni tempo, si porta dietro un mal di vivere che invano cerca di curare, o almeno di dimenticare qualche ora, con dosi crescenti di alcool. Non è facile, per il sedicenne Ariel, galleggiare senza rete, senza famiglia e quasi senza apprendistato a Buenos Aires. Due mesi nelle giovanili del River Plate, poi subito in prima squadra, con Passarella, peraltro in una delle migliori versioni recenti dei Millionarios. Si consacra fra 1991 e 1994, vince tre titoli d'Apertura con Passarella in panchina. Il 30 aprile di quel 1994 guida il River al primo successo in un Superclasico alla Bombonera, in casa del Boca Juniors, in otto anni. Lo apre lui il 2-0, su assist di Crespo che poi raddoppia. La partita finisce con una sparatoria, fatale per due tifosi del River. Gioia e tragedia, la sintesi della sua storia. Conquista la nazionale e un posto al Mondiale negli Usa. C'è anche lui nell'estate della fine del mito, della positività di Maradona. Al River arriva Ramón Díaz, e in due anni la gloria si estende a tutto il continente. L'estasi, senza tormento, matura nella finale di ritorno di Copa Libertadores contro l'America di Cali. È il River di Ortega e Crespo, del “Mono Burgos”, il portiere diventato assistente inseparabile di Simeone, di Astrada e Francescoli, Almeyda e Gallardo. Ortega parte in slalom dopo mezzo minuto, è il segnale di una serata che non conosce ostacoli. Traccia l'assist per Crespo, poi si lancia in corsa verso il fondo, cattura il rilancio sbagliato del portiere Cordoba e offre a Escudero la palla del secondo gol e della seconda Libertadores nella storia del River.

 

IN EUROPA - Lascia Buenos Aires alla fine di febbraio 1997. L'Europa è una successione di esperienze in cui il duplice Ortega rimane fuori posto, la nota stonata dentro orchestre che non suonano la sua musica. A Valencia, non si prende con Claudio Ranieri. La sua idea libera di calcio non si piega a una visione più dogmatica. Un tecnico schematico e un giocatore con l'intenzione di uscire dagli schemi non andranno mai d'accordo. Forse nemmeno ci provano davvero. Ortega dà all'allenatore del bugiardo perché l'ha rassicurato prima di una partita e l'ha tenuto in panchina. Quella frase diventa un titolone in prima pagina e la fine della sua esperienza. Non che cambi troppo la situazione nella sua unica, storta, stagione alla Sampdoria. Ha giocato in Francia il suo Mondiale migliore di sempre. Serve gli assist a Batistuta contro il Giappone e a Pineda contro la Croazia, firma la doppietta e un altro assist a Batigol nella goleada alla Giamaica. Partecipa al 2-2 da leggenda con gli inglesi, la partita del gol capolavoro di Owen, dell'espulsione di Beckham, della vendetta gustosa sui maestri. Fa ballare anche l'Olanda per 87 minuti, prima di un cartellino rosso che anticipa la fine dei sogni e prelude al capolavoro d'autore di Bergkamp.

IL TUNNEL - L'Italia gli riserva solo aspettative deluse e amori non corrisposti con i tifosi. In un sondaggio del 2008, lo consideravano l'acquisto più deludente arrivato in Serie A. Beve, a Genova lo arrestano perfino, dopo una rissa fuori dal locale. A Parma ritrova l'amico Crespo e un tecnico come Malesani che pure con un calcio offensivo potrebbe esaltarlo. Ma il tunnel in cui si è infilato ha poco a che fare con l'assenza di gol o le panchine. È disabitudine alla realtà, impossibilità di disegnare il mondo in cui varrebbe la pena trovare un posto. Magari quel posto è semplicemente a casa. Torna a Buenos Aires e per un paio d'anni è felice davvero al River. È il più amato d'Argentina, svezza una generazione d'oro, o almeno così sembra allora: Saviola, Aimar, D’Alessandro, Cavenaghi. Talenti sull'armonia del tango, che è insieme sentimento forte e nostalgia di qualcosa che potrebbe essere e non sarà. La sua prestazione totalizzante nel 3-0 al Boca del 2002 è un passo d'addio, ma non lo sa ancora nessuno.

LE ULTIME STAGIONI - Ortega stecca il Mondiale in Corea, come e peggio di una nazionale arrivata come una delle favorite. Il fallimento è epocale, la reazione è una fuga senza senso in Turchia. Il Fenerbahce lo paga bene, ma lo sa che non è quello il posto in cui colmare i vuoti. E infatti rompe unilateralmente il contratto, il club lo denuncia, la FIFA lo multa per 10 milioni. Senza soldi e senza squadra, il Burrito è un'anima perduta. Vive qualche sprazzo di ispirazione calcistica al Newell's Old Boys, con cui vince il titolo nel torneo Apertura del 2004. Torna anche al River. C'è in panchina Simeone, che i suoi problemi li conosce. Il rapporto è altalenante. Vince un titolo Clausura, poi nel 2008, dopo un Clasico perso, in mezzo a cori irridenti, Simeone non infila con i suoi uomini l'uscita secondaria. Ha il piglio da uomo e se ne va dalla porta principale, in mezzo ai tifosi che gli rinfacciano di aver cacciato Ortega dopo che il Burrito gli aveva regalato il titolo. La riabilitazione è una fuga, che tocca perfino l'Independiente Rivadavia in Serie B. Si mostra alla nazione, e alla nazionale, in un'amichevole contro Haiti prima del Mondiale in Sudafrica. È la maschera dell'Ortega tutto gioia e tutta bellezza degli inizi. L'uomo ha sconfitto il campione.

 

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Un giramondo del calcio, un personaggio dal carattere particolare che gli ha impedito di sfruttare al massimo le sue potenzialità. È stato comunque una figura iconica del calcio argentino. Per lui anche le esperienze in Italia con Samp e Parma, ma il suo nome è legato principalmente al River Plate, squadra con cui ha esordito e dove è tornato in altre due differenti occasioni. Un trequartista dalla grande tecnica che, con la maglia dell'Argentina, è sceso in campo in tre diverse edizioni del mondiale. In totale con l'albiceleste ha giocato 87 partite condite da 17 reti. Compie oggi 45 anni “El Burrito” Ariel Ortega. Tanti auguri. #amodonostro #ilcuoio #arielortega #ortega #happybirthday #hbd #football #futbol #futebol #soccer #vintage #story #river #riverplate #argentina #seriea #uefa #fifa #fifa19 #graphic #photography #sampdoria #parma #anni90 #4marzo #burrito #elburrito #afa #afaseleccion

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