A proposito di Paola, che un giorno entra all’oratorio e incontra il pallone. A proposito di Paola, un ramo del lago di Como, che inseguendo quel pallone ne ha fatto un sogno se non proprio una professione. A proposito di Paola Brumana, 32 anni, attaccante, artista del dribbling, in corsa per battere se stessa, 24 gol record personale, 22 fino a oggi: si può. E’ lei quella del “domani smetto”, ma domani è sempre un altro giorno. «Ogni anno dico che è l’ultimo, e ricomincio sempre. Se c’è entusiasmo e la gambe reggono, non so... non riesco a fermarmi. Sono sensazioni, annate strane che mi fanno dire basta».
Venti supermercati in quindici giorni, tra Udine e Pordenone, niente orari, niente assilli. E’ il suo lavoro: rilevamento prezzi. Entra, non deve dar retta a nessuno, controlla, segna e passa. E’ diventata friulana ormai. «Sono andata via da casa tredici anni fa. La mia vita ormai è qui, ho le mie amicizie, non solo il calcio. La famiglia manca tanto. Ho quattro nipoti e li vedo raramente, so che mi sto perdendo un sacco di cose. Ogni volta che li incontro sono diversi».A lavorare ha iniziato presto. «Ho trovato questo lavoro quando ero al Bardolino a Verona e me lo sono portato a Udine. Volevo qualcosa che mi impegnasse durante la giornata, non potevo stare ad aspettare gli allenamenti. In realtà sono diplomata Operatore Turistico, ma non ho imparato né inglese né tedesco. Studiare non mi è mai piaciuto».
Le sorelle giocavano una a basket e l’altra a pallavolo, lei ha provato entrambi gli sport ma ha vinto il calcio. A sei anni è stata stregata da un gioco ammaliatore. L’oratorio è una piccola strada, dove ci si incontra, fedeli o infedeli, uniti dal pallone. Paola entrava alle due del pomeriggio e alle sette i genitori andavano a prenderla, la trovavano in mezzo al campo ed era dura portarla via. Il calcio di Paola è uscito dall’oratorio a 14 anni quando è andata a giocare in una squadra vera, a Como, fino al grande salto, il Foroni Verona, società ambiziosa e vincente. «Ho solo aspettato di finire la scuola, era l’impegno con i miei genitori. Quando il Foroni è fallito, sono rimasta a Verona, al Bardolino, ho vinto altri due scudetti e la Coppa Italia, un bel trampolino di lancio per me a 22 anni».
E dopo Verona, Tavagnacco. Un paese appena fuori Udine. Le radici che si piantano, gli alti e i bassi e la passione che trascina oltre ogni fatica. In mezzo anche la Nazionale, una breve ma intensa esperienza e un sogno ancora non del tutto finito. «Non sono stata molto fortunata. La prima volta che sono stata chiamata, il ct era Carolina Morace, che mi ha costruito, formato. Ma è durato poco, due anni forse. Poi è arrivato Ghedin e io non sono stata più convocata. Cabrini invece mi ha dato fiducia e a trent’anni fa proprio bene. Gli devo molto. Ora è giusto dare spazio alle giovani».
Eppure il nostro è un Paese per “vecchi”, lo dice la sua esperienza e lo dice Patrizia Panico, capocannoniere, nazionale a 40 anni compiuti. «Panico è una storia a parte, capitano, titolare e soprattutto fa i gol, non si può farne a meno. Mi sarebbe piaciuto giocare insieme a lei e invece ci siamo soltanto incrociate. Solo il piacere di qualche allenamento in Nazionale. Finché c’è lei è dura anche vincere il titolo di capocannoniere. Guarda là quanti gol ha fatto (33 ndr)... Per quest’anno mi accontento di battere il mio record e poi aspetto che Patrizia smetta di giocare».
Tifa per il Milan, ma allo stadio va poco. «Quest’anno il Milan più drammi che altro. Mi piace tutto il calcio. Vado a vedere anche la Roma quando viene a Udine. La Juventus no. Eppure il mio idolo è Del Piero: un grande, dentro e fuori del campo. Il mio mito femminile invece era Rita Guarino. E dei giovani del momento, Dybala è proprio forte. Mi piace anche il tennis e Djokovic».La televisione quindi è questo, il calcio e anche le serie tv, soprattutto polizieschi o medical.
La lettura del momento è impegnativa, il libro di uno psicologo sulla respirazione e l’uso della testa. «Mi sta aprendo la mente alla vita. E mi aiuta anche nel calcio. L’anno scorso non è stato un anno bellissimo, tante, troppe cose negative intorno. Ho imparato che l’80% delle cose le fa la testa e per questo va liberata e le cose poi vengono. E’ un percorso che aiuta a circondarsi di persone positive. Bisogna imparare a concedersi cinque minuti del proprio tempo, fermarsi e fare la respirazione e i cattivi pensieri passano. E’ stato utile per me, soprattutto quest’anno che la squadra è stata rivoluzionata ed è molto giovane, io sono la più vecchia. Ora so usare la testa, o almeno ci provo, per superare certe cose, devo molto a Raffaella Manieri, che gioca nel Bayern: lei mi ha insegnato come fare».
Avanti c’è un viaggio. «Voglio andare in America e in Australia e vedere città che non conosco. Ho girato tanto però... mi manca Parigi per esempio». Indietro c’è un rammarico. «Adesso capisco che ho sbagliato. Dovevo andare via quando mi ha cercato il Valencia. Ero giovane e sarebbe stata un’esperienza di vita importante. Invece valutai il campionato spagnolo dello stesso livello di quello italiano, e non sono andata. E’ stato un peccato».
Dice che per essere un esempio non servono le parole. «Non voglio fare la chioccia. Do l’esempio senza parlare e spero che le giovani mi seguano. Io non mollo mai nemmeno in allenamento e questo parla più di mille parole. So aiutare le mie compagne senza aggredirle». In campo è irruenta, non le manda a dire e a volte ne dice troppe, soprattutto agli arbitri. Infatti sabato contro il Verona è squalificata. Il Tavagnacco diventa il bivio per lo scudetto. Il Verona viaggia in testa con un solo punto di vantaggio sul Brescia. «Gli arbitri mi fanno venire i fumi al cervello! Noi giochiamo spensierate, stiamo facendo un gran campionato, le ultime cinque vittorie di fila sono una bella soddisfazione. Ce la giochiamo anche col Verona, sono loro che hanno da perdere. Ma è un campionato strano, all’inizio davo il Brescia vincente sicuro, ora non saprei dire».
La domenica di Paola Brumana è ozio e pasta alla carbonara. Condivide l’appartamento con una compagna, ma ha iniziato a pensare a una casa tutta per sé. Nessun vizio, ogni tanto una birra, anche dopo partita per integrare i sali minerali. Quando è un po’ giù e ha voglia di stare da sola, sale in bici, infila le cuffiette e va a farsi una passeggiata. Vorrebbe occuparsi ancora di calcio, anche dopo, magari allenare. «Come ha fatto Sara De Filippo, che ieri era mia compagna e oggi mi allena. Mi fa un certo effetto. Ma molto entusiasmo lo devo a lei. E’ brava, non avevo dubbi. Io non so, sento troppo le partite, però mi piacerebbe continuare a dare al calcio come allenatrice quello che sto dando come giocatrice».
La sua fragilità è quella di non avere consapevolezza nei propri mezzi. «Mi metto sempre in discussione. Però alla fine ho imparato a non chiedere niente, né a me né agli altri, a non avere aspettative a essere consapevole di quello che sono». E così ha trasformato la fragilità in forza. La paura invece no, quella non si trasforma, ti cammina vicina. Soprattutto per una come lei che si è allontanata da casa giovanissima. «Ho paura di perdere un familiare. La famiglia mi manca molto, è il più grosso sacrificio che il calcio mi ha imposto». Però no, a Como non torna, la sua vita è a Udine: la famiglia è un pensiero fisso, e i nipoti, figli delle sorelle, che crescono così in fretta che a volte non li riconosce e se li perde un po', finiranno dentro a un infinito tatuato sul braccio. Prima o poi.