«Ho cresciuto mio fratello, che è più giovane di me di quindici anni, a calcio e Southampton. La maglia a due anni, e poi a quattro, a dieci. I Saints erano stati la mia scelta a Subbuteo, un legame che nel tempo è diventato indissolubile, definitivo». Non lo interrompo, la cosa mi diverte. «Sognavo di poter andare alla partita, di vederli dal vivo, ma lo stadio di allora, The Dell, conteneva 14.154 spettatori (dice proprio quattordicimilacentocinquantaquattro, nda) e non si trovava un solo biglietto, tutti venduti. Scrivevo mail, pregavo gli impiegati del club di darmi una mano. Inutilmente. Il colpo di culo a fine agosto del 2000, quattro posti liberi. Con mia grande sorpresa ricevo la risposta del segretario, ricordo il nome, Barry Fox: mi chiede se siamo ancora interessati. Presi al volo. Partiamo io, mio fratello e due amici di Treviso. Sabato 26, la partita è Southampton-Liverpool, The Dell è tutto in legno, un impianto di fine Ottocento, naturalmente fuori norma», sottolinea sorridendo. «L’anno seguente verrà sostituito dal St. Mary’s. C’è ancora il semileggendario Matthew Le Tissier, pesa centoventi chili e fa panchina. Dall’altra parte Owen. Venticinque minuti ed è già uno a zero per loro, Owen da due passi, poi 2-0, Hyppia, e 3-0, ancora Owen. L’inferno sulla terra. Hoddle manda in campo Le Tissier che si piazza stabilmente a due metri dalla panca, una statua di carne. A diciassette minuti dalla fine, noi morti da un pezzo, Marians Pahars, il centravanti lettone, fa 3-1 e in fondo ci basta, uno l’abbiamo messo. All’85’ El Khalej, il marocchino, segna il 3-2. E al novantesimo il delirio, lancio di trenta metri da sinistra, assist involontario di un difensore del Liverpool e Pahars ci fa sballare, 3-3. Non può capire, crolla lo stadio… Ho pianto per mezz’ora».
Palazzo Chigi, lo studio del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega allo sport, Giancarlo Giorgetti, 51 anni. E’ lo stesso studio occupato in un passato più o meno recente da Scalfaro e Andreotti, Rumor e Franco Evangelisti, Amato e Gianni Letta, Delrio e, fino a pochi mesi fa, da Maria Elena Boschi. Giorgetti da ragazzo sognava di diventare un gran portiere. «Ha presente uno su mille ce la fa? Beh, io faccio parte dei 999. Ho giocato nella Ternatese e in altre tre o quattro squadre della mia zona. Com’ero? Bravissimo», ride, «mi ha fregato l’Università…». Sulla scrivania la maglia del Southampton stesa in bella mostra, le maniche si allungano verso il pavimento, appese all’attaccapanni altre due maglie, una è quella della Nazionale. «Ho una passione quasi adolescenziale per i Saints, credo di aver visto sul posto non meno di 40 partite, l’ultima tre settimane fa, e ho frequentato tutti gli stadi inglesi ad eccezione di quello dell’Everton, Goodison Park. Il calcio inglese offre molti spunti di riflessione». Mi mostra il cellulare: «Non trova anche lei che Fedriga somigli a Gabbiadini?». In effetti...
Giorgetti, cosa potremmo riprendere dagli inglesi?
«Il controllo dell’accesso alla proprietà di un club. L’FA ha regole precise ed è inflessibile, pensi soltanto a come è stato trattato Cellino a Leeds. L’hanno sostanzialmente costretto a vendere. Ricordo ancora la manifestazione dei tifosi contro il proprietario italiano. Ecco, anche da noi la selezione alla porta d’ingresso dovrà essere severissima. Sia chiaro, molte altre cose dovranno cambiare. Il Governo è attento e decisamente sensibile allo sport, garantisce l’autonomia alla federcalcio, ma se il sistema non ce la fa da solo è pronto a intervenire».
Un’autonomia relativa, condizionata.
«Non la metterei giù così».
Il prossimo presidente federale Gravina lo sa?
«Il candidato unico. Le sembra normale? Il calcio italiano non è in grado di offrire un’alternativa. I numeri, le quote, certo, e i piccoli potentati di settore. Servirebbero degli approfondimenti, delle inchieste, anche giornalistiche. E non solo dalle nostre parti, anche all’estero. Gravina l’ho incontrato, abbiamo parlato, mi ha spiegato che vuole cambiare, ha un programma ambizioso, ma per fare la metà delle cose che ha inserito nel testo occorrerebbero venticinque anni. La riforma della giustizia sportiva è uno dei punti chiave. E lo è anche quella della Lega Pro che così com’è concepita non ha ragione di esistere, non può funzionare, non è sostenibile. E non ne faccio solo una questione economica, ma etica, di moralità».
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