Uccidi Paul Breitner, ovvero lunga vita al calcio

Dai Mondiali del '78 a Usa '94, dal Brasile di quattro anni fa al calcio del 2018, passando per la mistica di Guttmann, il sogno di Sacchi, gli affari di Blatter, regimi, gruppi terroristici, affari sporchi, per scoprire nel libro di Luca Pisapia che il calcio e la vita si mescolano in ogni momento, a ogni latitudine. Con effetti sorprendenti. E inquietanti
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La televisione come corpo, il pallone come dinamite, il calcio come codice esistenziale che attraversa popoli e regimi, idealisti e profani, filosofi del selciato e uomini senza scrupoli.

“Uccidi Paul Breitner” di Luca Pisapia (Alegre, pagg. 285, 16 euro), giornalista di Manifesto, Gazzetta dello Sport e Fatto Quotidiano, è un libro che ti prende e ti spiazza, e alla fine maneggi come un candelotto pronto a esploderti tra le mani. Ti invita continuamente a schierarti, a prendere parte, mettendoti di fronte a scene crude - una, soprattutto, molto cruda e scandalosa - ma che ti mettono davanti al bivio, o di qua o di là, cioè la cosa a cui noi italiani siamo da sempre meno pronti. E allo stesso tempo ti fa entrare nelle vene del calcio, raccontando vecchi retroscena sportivi e politici che tornano nuovi anche se non inediti.

“Uccidi Paul Breitner” ha vita propria, per il modo di raccontare il calcio con una narrazione hardboiled, su più piani, da Usa ’94 a Brasile 2014, passando per il sogno di Menotti, la segregazione di Balotelli, l’affarismo di Blatter, il biopotere di Allodi, il regime di Videla e la banda Baader Meinhof che incarnò gli anni di piombo nella Germania degli anni Settanta. Forse troppo in un libro che parla di calcio? No. E’ bastato leggerlo nello stesso momento in cui era capitato in redazione un saggio filosofico su questo sport, per capire quanta differenza possa esserci tra uno scrittore tifoso e filosofi che affrontano il calcio da una cattedra: da un lato, racconti che spaziano su e giù per la storia, in avanti e ritorno, con una fluidità che non può essere studiata a tavolino, non è tecnicamente possibile; nell’altro (che non citeremo) concetti pedanti, pieni di buon senso da fare invidia ai commenti della Sciura Pina. Niente di grave, ma il calcio - per quanto faccia parte della vita di ognuno - va amato in profondità per poterlo davvero raccontare in modo originale. Ed è quello che riesce a Pisapia.

La forza del suo libro è nell’assenza di quella narrazione consolatoria e poetica che, spesso, fa sentire anche l’ultimo giornalista un epigono di Soriano; nell'assenza di una nostalgia che non deve esistere perché il calcio, come sostiene Pisapia, non si è fatto spettacolo per qualche deterioramento dei tempi, ma è creato a immagine e somiglianza del capitale. E, come emerge dal racconto sul Mondiale del ’78 o dalla storia di Bruno Neri, ci ricorda che il calcio da sempre favorisce i nazionalismi, come sosteneva Borges, ma a volte anche i suoi anticorpi. Per questo, considerati i tempi, il calcio è nato già moderno.


C’è il vero e il verosimile. Ci sono personaggi carnosi e altri frutto della cultura letteraria dell’autore, che, probabilmente, ha letto Ballard, Soriano e amato Herzog. La narrazione passa da Kubrick a Platini, da Mondrian alla Dinamo Kiev, dalla geometria sintetica di Lobanovskyj alla mistica sacchiana, a ricordarci che il calcio è molto più grande della vita stessa. E, spesso, ha meno scrupoli.


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