ROMA - Roberto Baggio mi è sempre sembrato un eroe malinconico. Un genio del calcio, uno di quelli per i quali Gianni Agnelli scomodava i grandi pittori italiani, nel suo caso Raffaello. Teneva incollata la palla al piede come pochi, era capace di cambi di passo brucianti, aveva un dribbling da perdere la testa. E’ stato un campione, uno dei più grandi della storia del calcio italiano. Un ragazzo che in vent’anni di carriera ha giocato 643 partite e ha segnato 291 gol per i club in cui ha militato collezionando anche 56 presenze in Nazionale con 27 gol. Insomma, dovunque giocasse, faceva un gol ogni due partite. Un campione particolare. Ho avuto modo di passare con lui dei giorni in Giappone, ad Hiroshima, per l’associazione dei Premi Nobel per la pace che gli conferì, in quella occasione, il World Peace Award. Eravamo insieme quando arrivò la notizia della liberazione di Aung San Suu Kyi, la leader birmana a cui un regime dittatoriale aveva tolto la libertà da anni. Fu lui a comunicarla ai presenti, con una gioia che ricordo. Si era battuto in molte sedi per quella persona che non conosceva. Perché Baggio ha, per la sua coscienza religiosa e civile, uno spessore e un’intensità umana davvero rari. E’ uno dei volti italiani più conosciuti nel mondo. Quando camminavamo per le vie di Hiroshima non c’era persona, in un paese a recente cultura calcistica, che non lo fermasse emozionata e ovviamente, essendo in Giappone, non si facesse fotografare con lui. Baggio ha vinto il Pallone d’oro, due scudetti, una coppa Uefa e una Coppa Italia. Eppure, per me, aveva negli occhi quella specie di malinconia. Ma forse è qualcosa di diverso. E’ la profondità che ha solo chi è caduto e risalito, tante volte. Che ha chi ha dovuto “ricominciare” tante volte. E questa parola è forse quella chiave delle sue scelte. Sembra assurdo cominciare una conversazione con un campione parlando di sofferenza, ma forse ci aiuta a capire meglio quegli occhi e anche quel modo di giocare. Tutti e due rari.
Quando ha smesso di giocare ha detto che è stata una liberazione. Non è un paradosso dopo tutto quello che ha fatto per il calcio?
«Quel finalmente che mi sentii di dire, mentre mi levavo per l’ultima volta gli scarpini, era riferito a tutto il dolore fisico, una vera tortura, che ha accompagnato la mia vita di calciatore. Una sofferenza che, negli ultimi anni, si era fatta davvero insopportabile. Quando giocavo nel Brescia io, finita la partita, per due giorni faticavo a camminare. Quando tornavo a casa non riuscivo a scendere dall’auto, dovevo prima far uscire una gamba, appoggiarmi alla portiera e poi tirarmi su. E la domenica successiva giocavo. Imbottito di Aulin, ma giocavo».
Fu una liberazione, dunque, smettere di fare il gioco al quale ha dato i suoi anni migliori?
«Sì, ma non solo dal punto di vista fisico. Anche da quello personale, direi morale. Avevo dato tutto, e anche di più. Può sembrare paradossale, ma, in quel momento, mi sentivo felice e realizzato. Di più non potevo fare. Ma ero felice di quello che avevo realizzato e l’affetto del pubblico di San Siro, quando smisi in campionato, e di Genova, quando finii con la Nazionale, mi ripagarono di tutto».
Il suo calvario comincia subito, nel 1985, a Rimini. Aveva diciotto anni.
«Sì, fu il mio “pronti, via” con il calcio. Se mi potevo montare la testa, già parlavano di me come un fenomeno, la realtà si incaricò di farmi tornare a terra, anzi per terra, dove finii per aver messo male la gamba. Lasciai su quel campo menisco e crociato. I professori che guardavano il mio ginocchio scuotevano la testa e dicevano che era molto difficile che io tornassi a giocare al calcio».
Questo le è successo molte volte, vero? Eppure lei ce l’ha fatta sempre.
«Ho avuto sei operazioni al ginocchio, quattro al destro e due al sinistro. Erano anni in cui un menisco era una cosa drammatica, ora si fa quasi di routine. Io ho avuto interventi molto pesanti, molto invasivi. Ogni volta precipitavo in un tunnel. Ma non ho mai rinunciato a cercare la luce per uscirne».
Quella che fece in Francia fu la più difficile.
«Per darle un’idea mi bucarono la tibia per fissare il tendine, che si era lacerato, sulla parte esterna. Io non potevo prendere gli antinfiammatori perché ero allergico. Mi applicarono 220 punti di sutura all’interno. Soffrivo come un cane. A mia madre dissi “Se mi vuoi bene, ammazzami”. Era la disperazione di un ragazzo che soffriva e vedeva allontanarsi il sogno della sua vita, dopo averlo toccato. In due settimane persi dodici chili. Non mangiavo e piangevo sempre, di ogni tipo di dolore».
Ha mai pensato di gettare la spugna?
«Se le dicessi di no sarei un bugiardo. Ci sono stati momenti bui, molto bui. Ma ogni volta, alla fine, reagivo. Mi dicevo che dovevo andare fino in fondo. Era un modo per sfidare me stesso. Per mettermi in discussione. Per dimostrarmi che avevo carattere e che la mia forza era maggiore della mia sfortuna. E che un sogno valeva più di un ginocchio».
Il calcio deve essere stata una molla importante per farle affrontare queste sfide.
«E’ stata la mia passione da sempre. Mi portavo il pallone al bagno, per giocare. Le voglio raccontare che da piccolo avevo un sogno ricorrente. Immaginavo di giocare la finale di un Mondiale con il Brasile. Io sono uno di quegli esseri umani fortunati che può dire di aver realizzato un sogno. Ho sofferto tanto, ho stretto i denti, ho pianto e avuto paura. Ma poi quel giorno è arrivato».
E’ in quegli anni che lei matura la sua scelta religiosa, il suo incontro con il buddhismo?
«Le premetto che non fu facile, erano altri tempi. Io venivo da una famiglia cattolica. Ero arrivato a Firenze e in quel momento le cose sembravano davvero difficili. Non giocavo, ero davvero triste. Un mio amico che praticava da tempo mi invitò. Io dissi, un po’ scettico, va bene, lo faccio per sei mesi. Insomma, dopo tre giorni ho capito che quella era la mia strada. Capii che quando le cose vanno male si tende a dare la colpa agli altri, a fare le vittime. Mi resi conto che sbagliavo a fare così. E’ inutile giustificarsi se non raggiungi i tuoi desideri, i tuoi obiettivi. E’ tempo perso. Il tuo destino è, sempre, nelle tue mani».
Cosa è la natura per lei?
«E’ una gioia. Io vivo in simbiosi con la natura. E’ il luogo dove mi sento meglio. Amo stare da solo e, per stare soli, non c’è posto migliore di un bosco, una foresta, un ruscello. Pochi rumori, poco altro che te e il mondo. Io passo molto tempo così. Rifletto sulle sfide e sugli errori che ho compiuto».
Qual è un errore che ha compiuto?
«Di sicuro tirare alto un calcio di rigore».
Ne parleremo. Ma lei è un buddhista che litiga. Si dice che non avesse un carattere accomodante, specie con gli allenatori..
«No. Io con i miei colleghi calciatori ho sempre avuto un rapporto molto forte. Chiedete a loro com’ero e come mi comportavo. Ho sempre pensato che al calcio chi conta sono i giocatori. Sì, certo, un allenatore può tirare fuori le qualità di un giocatore ma, alla fine, conta chi para, fa un lancio, tira in porta. Il calcio è i calciatori».
Infatti è con gli allenatori che lei non si trovava sempre a suo agio…
«Non lo nego che loro avessero difficoltà. La verità è che ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con i tifosi. Questo dava fastidio. Erano altri tempi. Allora bastava far uscire una notizia per rovinare l’immagine di un calciatore. Ora è tutto più trasparente. Ti puoi difendere. Io ero uno che non amava apparire e parlare. Non era arroganza, ma umiltà. Non cercavo di essere al centro dell’attenzione. Anche perché gli altri mi ci mettevano comunque…».
Lei non fu felice che Sacchi la sostituisse dopo l’espulsione di Pagliuca nella partita con la Norvegia del girone eliminatorio del 1994...
«Lei lo sarebbe stato? Chi ama giocare al calcio vuole giocare, non guardare. Ci si dovrebbe preoccupare quando qualcuno esce dal campo felice e contento. E’ come quando si è ragazzi al campetto, non si vorrebbe smettere mai. Però le voglio dire che ci ho pensato tante volte e alla fine ho concluso che Sacchi fece quello che era giusto fare, tatticamente. D’istinto mi sembrava incredibile. Ma siamo stati dotati della ragione, non solo dell’istinto».
E il momento più bello della sua vita da calciatore?
«Sinceramente non lo so. Forse non c’è. Gli infortuni mi hanno insegnato che ogni momento felice può essere seguito dal suo azzeramento totale. Per cui mi sono abituato a pensare, comunque, che il giorno dopo sarebbe stato più bello di quello vissuto».
Vale anche per i Mondiali del ’94?
«Ancora di più. Pensi che storia incredibile. Si avvera il mio sogno. Sono ai Mondiali, ogni partita andiamo avanti. Dal secondo turno segno a ripetizione. E ogni volta che festeggio dopo un gol, penso a quello che sta succedendo nelle case degli italiani. Poi si arriva ai rigori e sbaglio. Mi sono sentito morire. Anche lì ho pensato alla reazione della nostra gente. E’ stato difficile. Ancora adesso non l’ho accettato. Sono stato io a mandare in tribuna l’Happy end del mio sogno, che in quel momento era quello di tutti gli italiani. Mi dispiace ancora oggi».
Qual è la Nazionale più forte in cui ha giocato?
«Ho giocato tre Mondiali. Tre squadre davvero forti. Tre volte siamo usciti ai rigori. Nel ’90 era una grande Nazionale, abbiamo vinto sei partite e pareggiata una e siamo finiti terzi. Ci vuole anche fortuna. Noi non ne avemmo proprio».
Se, nel ’98 contro la Francia, quel suo tiro meraviglioso fosse entrato in porta invece di sfilare davanti ai pali e uscire…
«Saremmo a parlare di un’altra storia. Potevamo vincerli quei Mondiali».
A proposito qual è il suo gol più bello?
«Mah. Forse uno che feci a Brescia contro l’Atalanta con un pallonetto. Sì, quello. O forse uno a Roma, sempre quando giocavo con il Brescia. Dipende dai momenti…».
Io sarò banale, ma per me i più belli sono quello che fece in Nazionale contro la Cecoslovacchia, io ero allo stadio con mia moglie al settimo mese e chiedo sempre a mia figlia se lo ricorda... E quello che fece contro il Napoli, con la maglia della Fiorentina. Ma mi fido di lei, andrò a rivederli. Lei ricorda spesso Brescia. E c’è un allenatore di cui ha sempre parlato bene, Carletto Mazzone.
«Posso solo dirgli grazie. Mi ha dato, credendo ancora in me, la possibilità di vivere quattro anni in più di calcio, anni belli, pieni di significato. E’ una persona schietta, sincera, in un mondo in cui spesso vanno avanti i ruffiani, i leccaculo, gli opportunisti».
Lei ha preso tanti calci, ma bisogna capire anche quei poveracci dei mediani, era l’unico modo per fermarla...
«Ero abituato a prenderle. Quando volevo difendermi, finivo col prenderne di più. Se cercavo di dare un calcio, mi facevo male io. Si beccavano delle scarpate pazzesche. Gli arbitri, che erano tre e non sei come oggi, vedevano e non vedevano. Prima di prendere un cartellino giallo un difensore ti poteva dare anche due badilate. Non c’erano tutte le telecamere di oggi, che vedono i falli anche dal labiale. Allora i mediani più zelanti io me li trovavo anche a casa sotto al letto, dato che gli allenatori gli dicevano di seguirmi ovunque. Se stavo bene non mi prendevano neanche con il mitragliatore. Se stavo male bastava un bambino di tre anni...».
Cosa è per lei la vittoria?
«Quella sportiva è una meta raggiunta. E’ figlia del lavoro, non solo del talento. Nella vita è sentirsi realizzati come persona, sentire la gioia di quello che fai».
E la malinconia?
«E’ il mio modo di essere. Io volevo far divertire la gente. Se non ci riuscivo mi intristivo. Quando non giocavo mi intristivo. Il mio estro era un servizio per gli altri, in fondo. E io ne sentivo tutta la responsabilità».
Che ne pensa di Balotelli?
«Ci vorrei parlare un po’. Ormai lui è alla penultima spiaggia. Se non fa un salto adesso è un problema. Poi puoi avere solo dei rimpianti. Per me è uno dei giocatori più forti nel panorama mondiale. Ma sembra voler dare agli altri l’idea di quello che forse non è».
A quale delle sette squadre in cui ha militato è rimasto più legato?
«A tutte, davvero. Io tifo per tutte quelle in cui ho giocato. Anche se la mia squadra del cuore resta il Boca Juniors».
Però alla Juventus non fu tanto felice di andare…
«Non avevo nulla contro i bianconeri. E’ che volevo restare a Firenze. E poi la società fece un gioco non bello. Mi vendette senza dirlo. Io dicevo ai tifosi che non sarei andato via e un bel giorno scoprii che, tenendomi all’oscuro di tutto, mi avevano ceduto. Si faceva così, allora. Poi si dava la colpa ai giocatori che volevano andar via per soldi. Balle, almeno nel mio caso. Io volevo restare per gratitudine per la gente di Firenze. Per i primi due anni non ho giocato. Mi hanno aspettato e voluto bene. Come fai a dimenticarli? Mi successe la stessa cosa a Bologna nel ’97. Ero stato venduto all’Inter a metà campionato, avrei dovuto giocare lì da gennaio. Ma i tifosi avevano fatto gli abbonamenti con me in squadra. Così rinunciai, al trasferimento e ai soldi, e finii la stagione al Dall’Ara».
Un suo ricordo di Borgonovo.
«Siamo cresciuti insieme, nella Fiorentina. Facemmo 32 gol in due. Poi insieme andammo in Nazionale. Era un grande giocatore e una grande persona».
C’è un giocatore che lei si aspettava riuscisse e che invece si è rivelata una meteora più che una stella?
«Mi faccia pensare. Mi viene in mente Bonfante, un ragazzo che giocava nella squadra allievi di Vicenza. Formazione che secondo me era una banda di fuoriclasse. Oppure Bachini che aveva mille qualità: velocità, forza, resistenza. Però di quei ragazzi che giocavano con me, molti si sono persi. Erano anni difficili, circolava droga e non era da tutti restare integri».
Si può essere amici nel calcio?
«Questa parola per me ha un significato profondo. Non vuol dire andare a cena con le mogli. Vuol dire esserci quando non c’è nessuno. Vuol dire trovare qualcuno quando gli altri ti hanno lasciato solo. Proprio oggi sono andato a Torino a visitare una persona che è in coma. I suoi parenti mi hanno detto che era un mio grande tifoso e sperano che il vedermi o sentirmi possa essere utile. Lo cito solo per dire che l’amicizia può esserci anche con chi non si conosce. Basta dare, per ricevere».
Cosa non le piace del calcio di oggi?
«Non so se ha pagine a sufficienza…Troppe cose dovrei dirle. Rimango dell’idea che il calcio è in mano ai calciatori, anzi nei loro piedi. Io vedo che ormai le squadre hanno un numero incredibile di giocatori, vanno, vengono, tornano. Io faccio fatica a seguirli. Penso che questo, a lungo andare, renda più difficile affezionarsi ai club e ai calciatori».
Perché ha rinunciato al suo incarico al settore tecnico della Figc?
«Troppa burocrazia. Che vive perché tutto rimanga com’è. Altrimenti equilibri che cambiano tendono a mutare anche poteri stratificati da secoli. Io volevo fare qualcosa per il calcio dei giovani. Ogni anno continuano a sorgere talenti. Ma non c’è struttura, sistema. C’è una immensa dispersione di possibilità e di fondi. Ma dovevo scontrarmi con chi il calcio non sa neanche dove sta di casa».
Quale le sembra il talento migliore del calcio italiano di oggi?
«Non ho dubbi: Berardi. Mi piace molto».
E su scala mondiale, chi potrebbe essere il suo erede?
«I miei eredi sono solo i miei figli. Se poi mi chiede chi è il giocatore più forte… Messi è il migliore, nel mondo. Quando decide di fare gol, lo fa. Mi sarebbe piaciuto giocare con lui. Anzi mi piacerebbe giocare oggi. Con le nuove regole e tanta tv certo avrei preso meno calci e avrei avuto meno infortuni».
Chi vincerà lo scudetto?
«Guardi, mi rendo conto che dirlo dopo queste prime tre giornate sembra strano, ma io resto convinto che la Juventus abbia qualcosa più di tutti».
Quale valore vorrebbe trasmettere ai suoi figli?
«L’umiltà. Se sei umile, non hai paura di imparare. Io nella mia vita ho ricominciato mille volte da zero. Ho fatto un eterno gioco dell’oca. Arrivavo alla casella finale e poi, per un incidente, dovevo ripartire da capo. Ma se sei umile non hai mai problemi ad affrontare sfide. Gli arroganti hanno paura del futuro. Gli umili lo cercano. Se vuoi essere qualcuno, nella vita, devi essere umile».
Che cos’è per un bambino il calcio?
«Sognare. Io sognavo la mattina, a mezzogiorno, a cena. E, inseguendo un pallone, ho imparato a soffrire, a cadere, a risalire. Ho imparato a vivere. E forse per questo sono riuscito a realizzare quel sogno».