Uno scudetto da romanzo: "Giorgio, che cos’è la paura?"

Mezzo secolo dopo lo scudetto più sentito dal popolo laziale, l’emozionante, a tratti struggente, racconto esclusivo realizzato da una straordinaria penna. Un romanzo di caratteri forti: 3 puntate da conservare
Uno scudetto da romanzo: "Giorgio, che cos’è la paura?"
Malcom Pagani
11 min
TagsLazio
Lina diceva che nel mese più crudele, era l’aprile del ’75, «Tommaso si era assentato un attimo per andare a morire», ma poi era tornato. Lina giurava che avrebbe potuto accadere in guerra, quando i proiettili non erano quelli sparati per noia da Petrelli e Chinaglia nel ritiro spiaggiato sull’Aurelia, a metà strada tra il mare e la città, ma non era accaduto. Lina sapeva che avrebbe potuto succedere sull’aereo del Grande Torino, all’epoca in cui suo marito aveva ricevuto un invito a bordo da Valentino Mazzola, ma non era successo. Si può andare via e restare per sempre. Si può essere o non essere. Si può far parte di una storia enorme e ricordarsi dei piccoli dimostrando di essere grandi: «Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?». Sono passati cinquant’anni. Niente somiglia a quello che c’era prima. Sono passati cinquant’anni. E Maestrelli non ha trovato uno straccio di erede. Molti dei suoi figli, quelli legittimi e quelli adottati, non hanno più voce per parlarne. Ma se potessero farlo, di quel mondo in bianco e nero, ricorderebbero i colori. 

Roma, 12 maggio 1974 
Esterno giorno 

C’è una città piena di balconi, di fioriere, di bandiere con l’aquila che si fanno spazio tra i gerani ed esiliano i passeri. C’è un pomeriggio troppo azzurro, di quelli che per quanto ti sforzi a cercare un errore nel cielo ti devi arrendere. Ci sono i pizzardoni che transennano le strade e le camionette verdi della Polizia con le reclute venute dal sud che presidiano i seggi e fumano fuori dai blindati perché oggi si vota per abrogare la legge che da quattro anni scarsi permette di divorziare. La scheda è gialla. I muri di Roma sono tappezzati dai manifesti della propaganda. Gustavo Thoeni scende da una pista da sci, le gambe piegate verso destra, la pettorina con il numero sei. Il cielo è azzurro. La scritta bianca ne incastona il profilo: «La famiglia deve vincere! Vota sì». Il signor Recchia Alfredo ha le mani sul volante del pullman e segue l’andatura nervosa della volante che lo precede. Chinaglia ha gli occhi chiusi. Forse medita, più probabilmente dorme, perché Giorgione è capace di tutto e in lui le intenzioni sono gregarie dell’istinto. Altri guardano fuori dal finestrino. Tra meno di due ore ventidue uomini occuperanno un prato verde lungo poco più di cento metri. La metà di loro vuole vincere lo scudetto, l’altra metà non vuole finire in serie B. Sulla panchina del Foggia, dove si sistema un friulano innamorato di Oronzo Pugliese, Lauro Toneatto, celebre per i ritiri estivi massacranti in cui guida corsette mattutine per i boschi a petto in fuori e per far servire pane raffermo ai giocatori in omaggio alla motivazione «che come la fede, non deve mai smarrirsi», Tommaso Maestrelli era stato. Dei suoi sentimenti, mentre si tortura i capelli e osserva un primo tempo in cui il desiderio sposa lo sgomento, nessuno potrebbe indovinare granché. Il Foggia resiste. La Lazio tituba. Fa molto caldo. Il tempo scorre. A tratti sembra immobile, a tratti velocissimo. Che cos’è la paura? Perdere le cose belle quando le hai già immaginate. C’è chi non ha dormito e chi dormendo ha sognato. Ma certi sogni sono così grandi che al mattino non te li ricordi più. Peppino Pavone, nella seconda vita architetto di Zemanlandia, vorrebbe rovinare la festa. D’Amico prende un palo. Garlaschelli e Francesco Scorsa si scontrano in volo. Una fronte ha la peggio. Il secondo gioca un’ora con il turbante sopra il sangue rappreso e dopo quindici minuti del secondo tempo, forse accecato dal sole, forse per ripararsi la testa, lega per sempre il suo nome alla storia della Lazio. Il pallone cade dall’alto, a campanile, come se non ci fossero ottantamila persone a guardare e il Presidente della Repubblica in tribuna, come se si fosse su un prato, da bambini. Scorsa alza un braccio. L’arbitro Panzino indica il cerchio bianco su cui una carriola trascinata da un anonimo addetto dell’Olimpico ha depositato una manciata di gesso poco più di un’ora prima. Scorsa è di Soverato. Panzino anche. Sono entrambi nati davanti al mare ed entrambi navigheranno altrove. Scorsa diventerà una bandiera dell’Ascoli. Panzino una presenza fissa delle terne arbitrali della serie A. I foggiani lo accerchiano, gli vanno sotto, protestano. Passano altri due minuti mentre Luciano Re Cecconi, un altro che a Foggia è diventato uomo, ha le mani sui fianchi e sembra indifferente al caos. «Quanti punti mancano, mister?». Prima di andare in campo, da qualche settimana, la domanda dei ragazzi al maestro era sempre la stessa. «Due ragazzi, con due punti lo scudetto è vostro». Giorgio sistema il pallone. Non è un grande rigorista. C’è chi si gira verso la porta di Pulici, chi abbassa gli occhi, chi prega. Poi all’improvviso si fa silenzio. Un silenzio interrotto dall’impatto del cuoio contro il cuoio. Maestrelli è scaramantico. Se si va al cinema Gregory e la domenica si vince si continua ad andare per settimane nello stesso cinema. Ora la pellicola si è spezzata alle 17 e 17 esatte. A volte i numeri confondono e la fortuna è solo questione di istanti. Dura solo un attimo la gloria. Bisogna saperla aspettare. 

Pievepelago, Agosto 1973. Hotel Bucaneve, interno giorno 

Lenzini, il presidente, li ha portati tutti qui. Lo fa dal 1969. C’è l’aria buona, l’ombra dei boschi, un albergo semplice ma imponente che domina la valle. Lenzini è nato in America, ma i suoi avi hanno origini che si perdevano in queste valli appenniniche. Le origini vanno onorate. Così il sor Umberto ha fatto mettere a posto campo e spogliatoi a sue spese. Lenzini ha una vaga somiglianza con Papa Giovanni e per filologia un altro Giovanni, Arpino, lo chiama «Il beato Lenzini». È generoso e trattenuto, aperto e diffidente, ci tiene a dire che ha studiato da ragioniere, ma se in un’intervista gli capita l’occasione di una biografia minima piega l’epica familiare in senso pauperista: « Sono nato a Wolsemburg, Colorado, Usa, nel 1912. I miei erano povera gente, venivano da Fiumalbo, nell’Appennino modenese. Mio padre faceva il minatore. Avevo 12 anni quando sono tornato in Italia con i miei genitori e gli altri miei quattro fratelli. Ci sentivamo estranei, parlavamo americano. Mio padre si trasferì a Pistoia perché imparassimo l’italiano. Ci restammo una decina d’anni, poi siamo arrivati a Roma. Con i soldi risparmiati in America, mio padre comperò dei terreni e cominciò a costruire case. Nei 1928 era già uno dei più importanti imprenditori di Roma». La Lazio arriva dopo. La rileva quando è in crisi nera, a metà degli anni ’60, con Gian Chiaron Casoni - l’uomo che firmerà i contratti di Wilson e Chinaglia prelevati dall’Internapoli - nelle vesti di commissario straordinario e poi di Vicepresidente. Lenzini retrocede in B dopo una manciata di mesi e dopo un paio di campionati anonimi, proprio mentre il ’68 archivia maggio per preparare quel ’69 in cui perderemo l’innocenza. Lenzini vuole la promozione in A e la promozione, con il duo Bob Lovati- Juan Carlos Lorenzo, centra. Lorenzo è argentino. Un argentino molto italiano, uno che teme le spie, ama il numero 8, allena i riflessi facendo correre i suoi dietro alle galline, brucia le maglie negli spogliatoi, aspetta gli avversari vestito da tanguero con Astor Piazzolla in sottofondo e lo champagne in mano, consiglia ai difensori di mettere sulle mani creme urticanti e le foto delle mogli degli avversari nei calzettoni per provocarli, ma nonostante le stravaganze, è un ottimo allenatore passato anche dalla panchina della Roma. D’altra parte, dell’altra squadra della città, Tommaso Maestrelli, il tecnico che adesso accoglie i giocatori a Pievepelago, è stato anche capitano. Il testimone glielo ha passato proprio Juan Carlos Lorenzo, cacciato a malincuore da Lenzini nel ’71 dopo una retrocessione e adesso Tommaso, sopravvissuto a un inizio non benevolo, complice lo scetticismo dei tifosi e un paio di sconfitte i n Coppa Italia: «A Maestrè, nun hai capito, te ne devi annà», è saldo in sella. Accanto a lui, tra i cavalieri che faranno l’impresa, c’è Gigi Martini: «Eravamo un gruppo di persone bizzarre. Bizzarre e indisciplinate. Uomini soli che davanti all’avversario diventavano undici. Non somigliavamo a Juve, Inter e Milan che vincevano gli scudetti attraverso un sistema professionale di regole e disciplina: noi eravamo l’opposto. E di etica neanche a parlarne. Eravamo una squadra di senza patria come si vede solo nei film». Del film, Maestrelli è il regista. Nella prima stagione al comando ha riportato la Lazio in serie A e nella seconda è arrivato terzo contendendo lo scudetto a Juve e Milan fino all’ultimo minuto dell’ultima partita. È convinto di ripetersi e di migliorarsi. Lo ha detto a sua moglie tornando a casa in piena notte, a fine torneo: «Ho capito che l’anno prossimo vinceremo il campionato». E la stessa convinzione anima i giocatori che nell’afa appena addolcita dalla montagna cercano compagni per la briscola pomeridiana. Dopo un lungo infortunio è tornato D’Amico. Il Ninetto Davoli della Lazio, con il volto pasoliniano e la battuta pronta. Strafottente: «Non sono inferiore a Pelé», rapido: «Vammi a prendere le sigarette in camera» gli intima Facco «così quando diventerai un campione racconterò che mi facevo portare le bionde da te», «allora preferisco rimane ‘na sega». Invisibile, Vincenzino, se le costellazioni non si allineano all’artista che sente di essere e che effettivamente è, immarcabile, Vincenzino, se solo quel giorno decide di esserlo. Sono rimasti Re Cecconi, Nanni, Wilson e Chinaglia, tutti richiestissimi. Le partitelle settimanali sono una battaglia, i clan (Wilson-Chinaglia, Nanni-Martini-Re Cecconi) si cambiano in stanze diverse e sono divisi su tutto, ma quando si tratta di lasciarsi dietro alle spalle il fischio dell’arbitro l’anarchia lascia spazio alle regole della trincea. Uno per tutti e tutti per uno e se sibila un proiettile si risponde con due. Una sera, a fine ritiro, Maestrelli passeggia a lungo con Pulici e Frustalupi fuori dall’albergo. È una notte piena di stelle, di luce, di luna piena e campi a perdita d’occhio. «Vi rendete conto?» dice Mario. «Di cosa?» domanda Pulici. «Di quanto siamo fortunati a tirare calci ad un pallone». 


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